La caviglia è un’articolazione complessa, capace di sostenere tutto il peso corporeo tanto nelle posture erette quanto nelle fasi di movimento. Una delle funzioni principali della caviglia è proprio consentire il passo e i cambi di direzione associati, ma se nell’espletare questo compito viene vincolata in qualche modo, rischia di incorrere in distorsioni o, peggio, fratture.

Questa seconda ipotesi, in particolare, è tutt’altro che rara: si stima che ogni anno almeno 5 persone ogni 10 mila riportino una frattura di caviglia. Questo numero cresce nella popolazione delle donne anziane, per ragioni di fragilità ossea e carenza di equilibrio, e in quella dei giovani uomini, per lo più legata a infortuni sportivi.

Quando la frattura è scomposta, o instabile, l’iter terapeutico prevede un intervento chirurgico di fissazione: una delle tecniche più utilizzate è la ORIF – Open reduction and internal fixation, che prevede appunto un’operazione di riduzione a cielo aperto, con fissazione interna. Se gli specialisti concordano sull’efficacia della tecnica, resta ancora da capire quale sia il migliore iter postoperatorio.

L’opzione tradizionale prevede l’uso del gesso postoperatorio, con inizio della riabilitazione solo a caviglia guarita. Di recente sono stati però introdotti protocolli differenti, basati sulla mobilizzazione e sul carico del peso precoci. Una recente metanalisi della letteratura, condotta dalla Clinica I di Ortopedia e Traumatologia dell’Irccs Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, cerca evidenze a favore di una delle due procedure.

Due tipologie di protocollo a confronto

Pubblicata su Musculoskeletal Surgery, la metanalisi tiene in considerazione solo studi randomizzati controllati condotti per confrontare l’efficacia della mobilizzazione e del carico del peso precoci con i protocolli postoperatori più tradizionali.

A tal fine, da ognuno degli studi selezionati seguendo le linee guida PRISMA sono state estratte le informazioni inerenti gli esiti clinici, il tempo richiesto per tornare a lavoro e il tasso di complicanze sviluppatesi. Il lavoro si basa su 20 studi, per un totale di 1328 pazienti.

Gli autori hanno innanzi tutto confrontato gli esiti della mobilizzazione precoce con quelli della immobilizzazione iniziale con gesso, in una sottopopolazione di 724 pazienti, non trovando differenze significative né negli esiti a breve termine, né in quelli a lungo termine.

Il passo successivo è stato il confronto degli esiti ottenuti in seguito a un ritorno precoce al carico del peso con quelli raggiunti con assenza di carico nelle prime settimane che seguono l’intervento. In questo caso i pazienti inclusi sono 1088 pazienti. In questo secondo caso si osservano delle differenze cliniche a lungo termine.

Cosa ci dice questa meta analisi?

Ma qual è il significato dei risultati evidenziati da questa revisione? Sostanzialmente, ciò che si sottolinea è che i diversi protocolli post-operatori portano esiti clinici molto simili e, in ogni caso, sono tutti sicuri… in effetti la revisione non individua differenze nei tassi di complicanze.

Tuttavia, si possono individuare dei vantaggi dati dalla mobilizzazione precoce, così come da un carico precoce del peso: nel primo caso, si osserva un rientro al lavoro in tempi più rapidi, il che può essere un vantaggio tanto per il paziente, quanto per la società per cui lavora; nel secondo i risultati clinici ottenuti nel lungo periodo sono migliori.

Lo studio: Barile, F., Artioli, E., Mazzotti, A. et al. To cast or not to cast? Postoperative care of ankle fractures: a meta-analysis of randomized controlled trials. Musculoskelet Surg 108, 383–393 (2024). https://doi.org/10.1007/s12306-024-00832-2

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